Così pensava Rita
Levi-Montalcini, neurologa italiana insignita nel 1986 del Premio Nobel per la
Medicina con la scoperta del fattore di accrescimento della fibra nervosa in
«un mondo vittoriano, nel quale dominava la figura maschile e la donna aveva
poche possibilità». È stata infatti una
delle tante donne di cui purtroppo si parla ancora poco ad avere la
determinazione di studiare e dedicare la propria vita alla ricerca nell’ambito
scientifico in un’epoca di disparità sociali nonostante sia stata anche vittima
delle persecuzioni razziali.
Rita Levi-Montalcini è nata a Torino il 22 aprile 1909 da una famiglia ebrea sefardita. Il padre era un ingegnere mentre la madre era una pittrice per cui Rita si formò in un ambiente dove la scienza e l’arte avevano molta importanza. Trascorse l’infanzia e l’adolescenza in serenità nonostante la concezione vittoriana della famiglia in relazione ai rapporti con i genitori, alla visione della donna e dei suoi ruoli.
Il padre pensava che una carriera lavorativa avrebbe interferito con i suoi doveri femminili perciò la indirizzò verso il liceo femminile. Concluso questo percorso, nonostante l’opinione contraria dei genitori, Rita Levi-Montalcini ottenne la maturità classica e si iscrisse nel 1930 alla facoltà di medicina e chirurgia. A determinare questa scelta fu la scoperta che la sua governante Giovanna Bruatto, a cui era molto legata, aveva un cancro incurabile allo stomaco per cui morì. Nello stesso anno entrò nella scuola medica dell’istologo Giuseppe Levi dove iniziò gli studi sul sistema nervoso ed ebbe come compagni universitari i premi Nobel Renato Dulbecco e Salvatore Luria. Dopo aver ottenuto la laurea nel 1936 si specializzò in neurologia e psichiatria.
A causa dell’emanazione delle leggi razziali, nel 1939 fu costretta a scappare in Belgio dove ebbe la possibilità di continuare i suoi studi all’Istituto di neurologia dell’Università di Bruxelles. Durante l’inverno del 1940, tornata in Italia dopo le minacce da parte di Hitler di invadere il Belgio, allestì un laboratorio in casa per proseguire le sue ricerche ispirate ad un articolo pubblicato dal professor Viktor Hamburger nel 1934. Qui, insieme a Giuseppe Levi, che da suo insegnante diventò il suo assistente, scoprì il fenomeno della morte di intere popolazioni nervose nelle fasi iniziali del loro sviluppo, fenomeno compreso nei suoi meccanismi solo tre decenni più tardi nel 1972 e definito con il termine apoptosi.
Nel 1941 per sfuggire ai nazisti si trasferì in una villa nelle colline astigiane dove continuò le sue ricerche per poi scappare sotto falsa identità a Firenze nel 1943 per scampare ai rastrellamenti tedeschi. Qui, cambiando più volte rifugio, Rita Levi-Montalcini e la sua famiglia sopravvissero all’Olocausto. Durante l’occupazione tedesca della città, la donna entrò in contatto con le forze partigiane del Partito d’Azione e, quando nel 1944 la città fu liberata dagli Alleati, divenne medico al Quartier Generale angolo-americano dove si accorse che quel lavoro non faceva per lei perché non riusciva ad avere il distacco necessario dai pazienti che curava. Finita la guerra tornò a Torino dove riprese gli studi.
Nel 1946 Victor Hamburger la invitò a St. Louis per confrontarsi sui diversi risultati ottenuti nelle osservazioni scientifiche. Rimase negli Stati Uniti circa trent’anni fino al 1977 dove realizzò gli esperimenti che la portarono poi nel 1951-52 alla scoperta del fattore di crescita nervoso (nerve growth factor), una proteina coinvolta nello sviluppo del sistema nervoso dei vertebrati. Questa scoperta è stata di fondamentale importanza per la comprensione della crescita delle cellule e degli organi e svolse un ruolo significativo nella conoscenza del cancro e di malattie come l’Alzheimer e il Parkinson.
Nel 1956 venne nominata professoressa associata e nel 1958 professoressa ordinaria di zoologia presso la Washington University di Saint Louis, dove insegnò fino al 1977, anno del suo pensionamento.
Per le sue scoperte nel 1986 ricevette il premio Nobel per la medicina con la seguente motivazione: «La scoperta del NGF all'inizio degli anni cinquanta è un esempio affascinante di come un osservatore acuto possa estrarre ipotesi valide da un apparente caos. In precedenza i neurobiologi non avevano idea di quali processi intervenissero nella corretta innervazione degli organi e tessuti dell'organismo».
Nel 1987 ricevette dal Presidente degli Stati Uniti la National Medal of Science, l'onorificenza più alta del mondo scientifico statunitense.
Mentre si trovava negli Stati Uniti lavorò incessantemente anche in Italia infatti dal 1961 al 1969 diresse il Centro di Ricerche di neurobiologia creato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche presso l’Istituto Superiore di Sanità e dal 1969 al 1979 rivestì la carica di Direttrice del Laboratorio di Biologia cellulare del Consiglio Nazionale delle Ricerche dove, dopo essersi ritirata per raggiunti limiti d’età, proseguì i suoi studi come ricercatrice fino al 1995.
Nel 1983 diventò presidente dell’Associazione Nazionale Sclerosi Multipla poiché non smise mai di seguire le ricerche sulla patologia.
Il 1 agosto 2001 è stata nominata Senatrice a vita della Repubblica Italiana e nel 2009 è diventata la prima persona insignita del premio Nobel a raggiungere il secolo di vita.
Rita Levi-Montalcini durante la sua vita ha testimoniato con un'eccezionale determinazione il valore e l'importanza della ricerca scientifica. Ha rivoluzionato la neurologia con le sue scoperte aprendo la strada a nuove cure per molte malattie, abbattendo i pregiudizi, le barriere sociali e il maschilismo presente nella società dell’epoca che spesso non permettevano alle donne di eccellere nel mondo scientifico. Ha avuto la tenacia di continuare i suoi studi nonostante le persecuzioni razziali, servendosi anche di mezzi di fortuna e scappando in varie città d’Italia e all’estero. Questo per portare avanti la sua passione per la ricerca e per la medicina e per spianare percorsi per le nuove generazioni a cui durante gli ultimi anni della sua vita si dedica attraverso incontri e confronti. In questa sua volontà di rapportarsi con i giovani c’è una profonda fiducia nelle capacità innovative dell’uomo. Dalle sue parole emerge l'invito a non concentrare l'attenzione solo su sé stessi, a partecipare ai problemi sociali e fare proposte volte al miglioramento del mondo attuale.
È importante pensare alle difficoltà che ha avuto nella vita per realizzarsi e come le ha superate per renderci conto dei passi avanti che abbiamo fatto arrivando ad oggi dove si sta raggiungendo la parità di genere ma anche per riflettere su quanto si può ancora fare.
PAOLA BRAVO - 3^B LS
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