venerdì 18 novembre 2022

UN SOGNO È PER SEMPRE - racconto di sport parte I

 Il cross è perfetto, morbido e preciso al punto giusto. Il pallone pesa, pesa più di tutti quelli che abbia mai solo immaginato di calciare. Il cuore fuori dal petto, gli occhi fissi che divorano il suo obiettivo. Lo impatta col collo del piede, come gli è stato insegnato dal suo più grande maestro. Precisione e potenza convergono in un tiro che è destinato alla storia. O così sembra essere.

Manchester, 6 dicembre 2013. Il freddo era padrone delle strade e regnava su di esse, ma qualcosa di più caloroso riusciva a infiammare di sogni e speranze i ragazzini che popolavano le strette e spoglie vie della cittadina inglese; niente li accomunava, al di fuori dell’amore per quel pallone, capace di regalare emozioni che a parole non si possono descrivere: un’enfasi devastante parte da dentro, attraversa l’animo e manda in estasi il cuore, rapito dalla gioia del momento. Ed era qui, sopra il più povero asfalto inglese, che stava per nascere una stella, una stella che aveva fame di brillare più delle altre nell’immensità del firmamento calcistico.

Cole Hunter era un ragazzino come un altro, solo più voglioso e affamato, perché la vita a quelli come lui non dona nulla, bisogna lottare per tutto, soprattutto per le banalità. Questo era il mondo in cui era cresciuto, dove sacrificio e duro lavoro erano le sole parole con le quali si poteva andare avanti. Se a casa mancava il pane, se ne faceva una ragione. Se a casa mancava l’acqua calda, se ne faceva una ragione. Eppure se si ha un sogno, questo è per sempre: uno dei tanti insegnamenti che Cole aveva ricevuto dalla madre, che ogni giorno lo sosteneva e spronava, perché poteva mancare tutto ma gli scarpini per il figlio dovevano essere presenti.

Per lui e per il suo incredibile sogno.

Il padre, prima di abbandonarli, gli aveva trasmesso questo: un amore incondizionato per il calcio, quale sport in grado di unire tutti con passione.; eppure suo padre era stato tradito da questo amore: stroncata la sua carriera da un terribile infortunio.  Per tutto il resto completamente assente, l’uomo non era stato una figura affettuosa, anzi era sempre pronto a criticare le scelte e le prestazioni del figlio, ogni volta in disaccordo e facile al litigio con la madre.

D’altro canto vi era il nonno Jim, un omone sulla settantina dai candidi capelli bianchi che decoravano il viso paffuto, contornato anche da una corta e ispida barba assai curata. Egli era il rifugio di Cole; infatti, dietro quella che era una vera e propria montagna, si celava un cuore tenero, dolce, che sapeva prendersi cura del nipote: era la spalla su cui piangere, un volto con cui ridere e un mentore formidabile. In effetti, la carriera di Jim parlava da sé: calciatore professionista della Premier League (massima serie calcistica inglese), un palmares che vantava ben 15 trofei fra club e nazionale, oltre 100 goal siglati e, soprattutto, protagonista dell’incredibile impresa del Manchester United, vincitore della tanto agognata Premier dell’89.

Una carriera che sarebbe stata senza rimpianti se non fosse stato per quel rigore, quel maledetto rigore sbagliato che costò la sconfitta in finale della FA Cup, il più prestigioso fra i tornei inglesi, che Jim non riuscì mai a conseguire. Comunque sia, la sua storia era raccontata di giorno in giorno al nipote con occhi che, all’udire la parola calcio, si accendevano di uno spirito rinnovato e accecante. Attaccante di razza pura, abile sia nell’inserimento che nella finalizzazione, assai elegante, così come Cole, gli aveva trasmesso ciò che era l’essenza del goal: una gioia incontenibile dopo una personale ricerca che pare sempre essere infinita, e che si fa nuova ogni volta che il pallone gonfia la rete.

Migliaia erano le volte che il ragazzino aveva voluto sentire del goal numero cento del nonno: un tiro al volo che baciò la traversa e si depositò violentemente in rete. Esecuzione perfetta. Quel pallone, Jim, se lo portò a casa e ora era conservato delicatamente e con enorme gelosia da Cole, al quale era stato regalato.

Il loro rapporto era dunque speciale, inscalfibile.

La giornata a scuola, come sempre, passò all’insegna della noia e della speranza che finisse il prima possibile, perché un’irrefrenabile voglia di calciare quel maledetto pallone, che ora sembrava così lontano, viaggiava a tutta forza in Cole. Con la testa immersa in tutt’altro mondo, fece uno scatto fulmineo quando la campanella decretò la sentenza finale: finalmente liberi.

Arrivare a casa era una tappa di puro passaggio, tuttavia obbligatoria per rifocillarsi; terminato il pranzo, si riversava in strada, dove si riuniva assieme ai suoi amici: le porte fatte di giacche e zaini, regole ballerine inventate dai ragazzi rendevano tutto magico, relegando il calcio alla sua forma più pura e sincera: il divertimento. Fra risate, giocate spettacolari e coloriti litigi per goal da convalidare o meno, la giornata si infranse ben presto nel buio oramai incombente. Salutati tutti i suoi compagni, come da rito, Cole si avviava di nuovo verso casa, quando quel girono si imbattè in un uomo, all’apparenza losco: mocassini ai piedi, lunghi pantaloni neri che richiamavano la maglia sotto l’elegante giaccone grigio, in tinta con la cravatta e in contrasto con gli occhiali da sole e il cappello, anch'essi completamente neri. La sua voce roca, profonda, fu messa in risalto dal bianco e fanciullesco urlo  di Cole: in quel momento egli seppe che la sua vita era destinata a cambiare e a diventare grande.

CONTINUA...


CRISTIAN MALLARDO - 2^A LS

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