mercoledì 2 febbraio 2022

La globalizzazione: tra il sì e il no c’è di mezzo l’uomo

La globalizzazione è il fenomeno che vediamo oggi tutti i giorni senza rendercene pienamente conto: la catena di fast-food più conosciuta e con numerosissime sedi in tutto il mondo:  Mc Donald’s è frutto della globalizzazione, Market place online che semplificano gli acquisti prodotti da tutte le part del mondo come Amazon; Ebay sono frutto della globalizzazione; Netflix che opera in oltre 190 paesi è frutto della globalizzazione, ma anche semplicemente il logo della Nike che lo rende riconoscibile ovunque è frutto della globalizzazione.

Ma che cos’è questa “globalizzazione”?

Si tratta di un fenomeno che abbiamo iniziato a vedere a grandi linee in seguito alla terza rivoluzione industriale successivamente in seguito del boom economico degli anni ’60, ma più riconoscibile e databile dagli anni ’90 in poi. Tramite lo sviluppo economico dei Paesi Occidentali è aumentata anche la rete di comunicazione, in particolare con i commerci esteri si sono creati dei veri e propri ponti di comunicazione e scambio di informazioni che pian piano si sono radicati, ad esempio con il fenomeno della delocalizzazione in cui Paesi europei preferivano produrre in paesi dove il costo di produzione era decisamente inferiore. Non si tratta solo di produrre in altri paesi, ma apprenderne anche la cultura e le tradizioni. Infatti nelle nostre tavole è normale mangiare piatti non italiani, ad esempio della cucina messicana o anche giapponese. Come è anche normale trovare nel proprio armadio capi di cui i tessuti sono provenienti dall’India.

Tutti questi punti a favore, come la maggior apertura mentale e forse anche una maggiore tolleranza culturale sembrerebbero essere di fondamentale importanza per la crescita felice alla quale tutti – credo – aspiriamo.

Però, c’è sempre un però quando, anche gli aspetti più marginali, possono avere un forte impatto a livello globale.

Incredibile ma vero possiamo definire la Globalizzazione come un colpo di Stato internazionale “silenzioso”, ma decisamente non indolore: difatti ha prodotto un enorme trasferimento di potere dai luoghi della politica, della statualità e della sovranità popolare ai centri della potenza economico-finanziaria e alle loro principali agenzie come Wto, Banca mondiale e le agenzie di rating. È come se si creassero piccoli stati in grado di decidere individualmente ed esercitare il proprio potere individualmente, una sorta di tante repubbliche di “San Marino” infiltrate nel sistema mondiale, che però danneggiano non solo l’economia ma anche la democrazia.

“La globalizzazione, intesa come forma specifica in cui sono venuti ad organizzarsi gli Stati, i mercati e le idee di commercio e governo, acuisce le condizioni in cui si manifesta la violenza su larga scala tra la logica dell’incertezza e quella dell’incompletezza, ognuna delle quali ha la sua forma e la sua forza”.

Così definisce Arjun Appaduraj la globalizzazione, come portatrice di questo fenomeno sociale che lui definisce come ansia da incompletezza. L’antropologo evidenzia questo fenomeno che sembra non escludere nessun gruppo sociale, causando come una sorta di domino che vede nascere un’insofferenza per le differenze che produce e che porta un aumento della rabbia. Inoltre, secondo Appaduraj, ciò genera anche un forte senso di insicurezza, che può essere facilmente manipolato dalla politica locale, permettendo di oltrepassare la linea fino a sfociare nella violenza. Infatti, l’antropologo sostiene che questa ansia, la quale deriva da una forza totalizzante, è il sentimento che convoglia la violenza e l’intolleranza.

È un fenomeno che ha aumentato le disuguaglianze, non solo economiche, ma anche sociali. A livello economico si tratta di una vera e propria disuguaglianza che coinvolge tutte le persone di questo mondo tranne quella percentuale di persona che ha visto aumentare i propri profitti. Si tratta del risultato di uno sfruttamento della forza del lavoro favorito in gran parte dalla delocalizzazione e immigrazione. La diminuzione dei redditi da lavoro ha portato con sé forti ripercussioni sull’insieme dell’economia, diminuendo il mercato interno e gli spazi di investimento per la piccola impresa. Senza dimenticare che le aspettative di vita si sono impoverite, portando una forte precarietà sociale che colpirà principalmente le nostre generazioni.

Tramite la liberazione dei capitali finanziari si sono andati a privilegiare gli investimenti a breve termine rispetto a quelli a lungo termine. La principale differenza è che se con quelli a lungo termine si va ad alimentare l’economia reale, con quelli a breve termine ogni giorno masse enormi di denaro virtuale vengono spostati sulle piazze finanziarie mondiali, destabilizzando stati e governi. Ciò ha portato a quella che è la crisi economica del 2007-2008, che ha visto un forte impoverimento e una finanza senza regole come principali protagonisti. Coloro che sottoscrivevano mutui si sono indebitati andando oltre le loro possibilità economiche, portando inevitabilmente una crisi mondiale percepita tuttora.

 Insomma, la globalizzazione è ciò che ai nostri occhi è la quotidianità, per cui mangiamo, indossiamo, vediamo ciò che è frutto della globalizzazione. Tutte le conseguenze di questo fenomeno sono però quelle più visibili a noi, più “vicini” ma, come per ogni cosa, non ci sono solo i pro ma anche i contro. Certo, non fraintendetemi, adoro indossare vestiti che magari possono essere stati prodotti in Bangladesh, anche se poche persone si rendono conto che dietro ad una semplice etichetta ci sono magari dietro dei bambini sottopagati e sfruttati che hanno prodotto la nostra maglietta preferita, o che dietro alla cover del nostro cellulare sono stati consumati dall’aereo per trasportarli più di 63 mila litri di kerosene, o che le creme che usiamo quotidianamente sono state testate sugli animali. Tutte conseguenze che però sono nascoste con le migliaia di campagne pubblicitarie o molto semplicemente, dai consigli che riceviamo da chi seguiamo sui social. Sicuramente la maggior apertura mentale, il sushi a tavola, la sciarpa turca che ci ha regalato nostra zia sono un punto a favore, ma non vanno date per scontato anche le conseguenze che si porta dietro ed è importante che ci sia maggiore consapevolezza. Non sto dicendo di non mangiare più cinese, ma di prestare attenzione sui prodotti che usiamo quotidianamente, di informarsi di più, condividere con i nostri parenti e con nostra zia, che sì, magari la sciarpa turca è anche bellissima, ma che a produrla è stato forse un bambino, o un adulto sottopagato e che comprandola si sostiene quella tipologia di mercato.

Spero che questo articolo vi sia stato in qualche modo d’aiuto e che vi sia piaciuto,

Suha Marmash, 5ALSU

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