Il fatto che il
mondo oggi venga percepito come “accelerato” non è una novità. Anzi, è un vero
e proprio dato di fatto. È quella frenesia che si percepisce nell’aria delle
metropoli a farci aumentare il ritmo della falcata, a farci pestare l’asfalto
con maggior fretta. La verità è che il mondo è semplicemente poco paziente.
Si può attendere
per tante ragioni: un appuntamento, il lancio di un prodotto, il rilascio di una
serie TV, un passaggio in macchina, il risultato di un test, una e-mail da
parte di un’azienda o di un collega, un messaggio. Saper aspettare, oggi,
mentre le macchine ci passano a pochi centimetri ad una velocità che percepiamo
come eccessiva, senza avere “niente da fare”, è un’arte e, in quanto tale, non
tutti sono in grado di padroneggiarla.
Gli adolescenti,
nati negli anni più veloci della storia, sono esperti nell’arte
dell’impazienza, del nervosismo e dell’intolleranza. Il giudizio viene cucito
frettolosamente addosso a coloro che sono altro da noi. È l’etichettamento analizzato
dal sociologo Goffman, solo che oggi non ci riferiamo solo alle cosiddette
istituzioni totali, semmai al quaotidiano: una foto sui social, il modo di camminare, di vestirsi, la velocità con cui si risponde
ai messaggi, il numero di sigarette che finiscono schiacciate sotto la suola
gommosa della sneaker. La necessità
di dover etichettare tutto come positivo o negativo, e di farlo il più
velocemente possibile, è una prerogativa che sembra appartenere più
specificatamente alla generazione dei
millennials. J. Piaget
(1896-1980) con la sua rivoluzionaria psicologia dello sviluppo, aveva messo
nero su bianco come gli adolescenti ragionassero per ipotesi, sviluppassero un
tipo di egocentrismo definito appunto, “adolescenziale” e, come i sistemi
teorici così limpidi nelle loro menti, si sovrapponessero come carta lucida sulla
realtà. Oggi sempre più virtuale.
I giovani vedono
il mondo attraverso filtri che permettono loro di accelerare un giudizio, senza
prima possedere notizie attendibili o fatti a supporto dei pregiudizi. Non ha
importanza se questi sono positivi o negativi, è quel “pre”, quel prefisso al
giudizio che ci deve far pensare. Perché se si ritiene che una persona o un’azione
sia bella o brutta, giusta o sbagliata a prescindere dai fatti, è possibile che
tutto il processo di analisi venga inficiato da una stucchevole predisposizione
all’influenza sociale.
“L’arte dell’attesa”, saggio di Andrea Köhler,
mette in luce il concetto di “attesa” attraverso diversi punti di vista ma, quello
che meglio si accosta al nervosismo delle ultime generazioni, è il seguente: “L’attesa è impotenza, e il fatto che da
soli non riusciamo a cambiare le cose è un’umiliazione che stravolge il nostro
modo di percepire il mondo”. Chi è tenuto ad aspettare non può fare altro
che sentirsi vulnerabile, incapace, e questa sensazione si rafforza nel momento
in cui siamo soli e dobbiamo aspettare “qualcosa”.
Chissà se Godot
arriverà mai!
Il disagio dei
ragazzi che non hanno nessuno con cui intrattenere una conversazione alla
fermata del pullman, o prima del suono della campanella di scuola, viene in
qualche modo mascherato attraverso l’uso del cellulare, ed è durante queste pause
che l’impazienza si manifesta nella gamba che si agita sotto il tavolo, nei
capelli scostati dal viso, nell’inconcludente ricerca dentro lo zaino di un
oggetto che possa renderli apparentemente impegnati.
L’emblema di
questa gioventù risiede nelle ormai celebri “spunte blu”: due insignificanti flag che stanno alla base dei messaggi
di WhatsApp, così apparentemente
innocenti, così concretamente infidi.
Forse il mondo
era un posto un po’ più felice prima che qualche algoritmo rivelasse la nostra
presenza in chat, la nostra posizione geografica, quali messaggi avevamo
effettivamente ascoltato o letto e quali no –volontariamente o
involontariamente-.
O Forse no: siamo
le nostre scelte, anche quando queste ci sovrastano coercitivamente.
Ed è proprio in
questo esempio che si riflette l’adolescente secondo Piaget: “perché ha
visualizzato e non ha risposto? Mi sta ignorando di proposito? Sta parlando con
qualcun altro? Quindi questo qualcun altro è più importante di me? Sicuramente
mi sta tradendo”.
Un bla bla di
dubbi, di inconsistenti ipotesi che però fanno male.
Egocentrismo,
ragionamento per ipotesi, disegni mentali che, spesso, non ricalcano la realtà.
Aspettare una risposta sui social è causa di un nervosismo perenne di cui non
sempre gli individui si rendono conto. Quest’impazienza rende l’attesa un
momento di forte tensione, di preoccupazione e ansia.
Molti adulti,
ormai appartenenti alla generazione X – classe 1960-’80- probabilmente non
risentono così prepotentemente di queste problematiche, essendo poco presenti
sui social.
Saper aspettare
non significa solamente occupare il tempo mentre si attende qualcosa di
particolare, può capitare di dover “ammazzare il tempo”, e di non avere nessun’arma
a disposizione con cui farlo. Qui entrano in gioco la settimana enigmistica, i
giornali, i libri – nel caso non si abbiano a disposizione dispositivi
elettronici – oppure serie TV, film, video e forum. Sempre più spesso si
sentono frasi come “in Italia si legge sempre meno” oppure “sono sempre davanti
al cellulare”, ovviamente riferite a coloro che Michele Serra aveva battezzato
“gli Sdraiati” nel suo romanzo del 2013.
Non è raro
sentire di ragazzi che si informano tramite i 280 caratteri di Twitter, o che conoscono la trama di un
libro senza mai averlo aperto: sembra basti guardare un video per sapere tutto
di un romanzo. C’è da attendere meno, non ci sono pagine da leggere, solo
fotogrammi da guardare.
Ma anche le serie
TV sono vittime di questa ingordigia del tutto e subito: la mietitura in questo
caso si chiama spoiler. Ecco che si
scatena una guerra lampo tra binge-watcher,
ovvero coloro che guardano le novità seriali il più velocemente possibile.
Cosa si ricava?
Nulla.
Cosa si perde? Nella
migliore delle ipotesi il discorso, nella peggiore la possibilità di pensare,
ragionare, vivere le ambientazioni e la trama. In poche parole, gustare la scoperta
della conoscenza.
Avendo tutto a
portata di mano in una piccola scatola nera chiamata cellulare, l’attesa, perde
di significato.
Viviamo un mondo
in cui si è sentita l’egenza di creare un’enciclopedia on line dedita solamente
al “come fare determinate cose”: Wikihow,
la quale disintegra la possibilità di
rimuginare per capire “come fare una determinata cosa”. La scusa per chi naviga
su questo sito è sostanzialmente la mancanza di tempo, che potrebbe
corrispondere ai minuti necessari per capire come avvitare un bullone.
Anche il diventare
grandi è un’attesa frenetica. Come se non si avesse abbastanza tempo per
raggiungere la meta. Poi la meta arriva, ma in quel caso l’attesa ha smesso di
essere arte: è diventata vita. Bisognerebbe insegnare ai bambini che non si può
“aspettare di crescere, vedersi crescere”, di non preoccuparsi di questo,
perché accade e basta, come nei romanzi di formazione, nei cartoni animati, nei
film. Il dunque saper aspettare diventa
inconsapevolezza.
“Adesso smetto di leggere Geronimo Stilton” e
si è grandi, quasi per magia, ma non funziona così perché l’attesa più bella è
quella di qualcosa che non si conosce, ma di cui si sente la presenza quando
arriva; l’attesa che ci fa dire “non mi ero accorto di aver aspettato tanto”.
Anita Murelli
5^ALSU
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