Come reagiresti se scoprissi che i tuoi
genitori non sono quelli con cui sei cresciuto ma altri, con una cultura ed una
religione diversa e appartenessero ad un popolo che tu hai sempre imparato a
odiare e riconoscere come il tuo nemico?
“Il figlio dell’altra”, film di Lorraine
Levy del 2012, affronta la questione israelo-palestinese attraverso le storie
di Yacine e Joseph, vittime di uno scambio di culla alla nascita, appartenenti
a due culture e due appartenenze sociali opposte. Il rapporto che nasce fra i
due ragazzi può essere letto come metafora di un incontro possibile, di
un’amicizia sincera che diviene strada per sovvertire e annientare la violenza
e l’odio, ancora presenti attualmente. I temi principali del film sono
l’identità, la diversità, lo smarrimento e l’apertura all’altro. I ragazzi si trovano davanti a una situazione
ambigua: l’incontro con i genitori biologici. Inizialmente disorientati,
riescono a scoprire l’unicità delle loro storie: la possibilità di conoscere
due culture e tradizioni differenti e scegliere a quale aderire. Nonostante
l’educazione impartita in modo
differente, entrambi hanno la curiosità di scoprire la loro vera origine
ma si sentono, allo stesso tempo, estranei a se stessi e al modo in cui sono
stati cresciuti: non sanno se vivere con i genitori biologici, abbandonare le
loro tradizioni e trasferirsi dalla parte “giusta” della città. Questo
turbamento può essere paragonato all’idea di una delle quattro alienazioni di Karl
Marx, ossia quella verso se stessi: i protagonisti non si riconoscono più come
individui appartenenti ad una società specifica ma come un ignoto in cerca di
risposte. Dal punto di vista pedagogico in Palestina e ad Israele valgono due
sistemi scolastici diversi.
Il sistema
scolastico israeliano si presenta complesso, in quanto innestato sulla
precedente organizzazione mandataria, a sua volta basata su quella ottomana. Il
sistema scolastico ottomano rifletteva la struttura stessa dell’impero, che era
suddiviso in millet, le comunità etnico-religiose, ognuna delle quali
relativamente autonoma, e si ispirava al modello francese. L’educazione
pubblica era gratuita e obbligatoria, durava in genere quattro anni e
l’insegnamento della religione costituiva parte del programma. La lingua
ufficiale era il turco, ma l’arabo era considerato seconda lingua. Le minoranze
godevano di una certa autonomia ed era consentito loro di possedere proprie
scuole private. Anche se all’epoca la presenza araba nella scuola fosse
piuttosto bassa, esistevano alcuni istituti privati musulmani, a carattere
religioso, favoriti probabilmente dall’inserimento dell’arabo come seconda
lingua di insegnamento. Per quanto riguardava l’educazione ebraica, invece,
essa si presentava piuttosto dispersiva. Gli ebrei che si erano trasferiti
nell’impero ottomano avevano portato con sé la propria lingua e la propria
cultura.
Il sistema
pubblico o statale è affiancato dalle scuole religiose ebraiche gestite e
controllate dalle diverse comunità ortodossie che in prevalenza accolgono
alunni maschi a partire dalle medie; e oltre a queste dalle scuole religiose
cristiane delle diverse confessioni e dall’istruzione privata laica. Inoltre
l’istruzione professionale, che può iniziare dopo le elementari, dipende non
dal Ministero dell’Istruzione ma dal Ministero dell’Industria e del Commercio.
L’occupazione britannica dette un forte impulso all’istruzione, ma al tempo
stesso favorì una maggiore segregazione e un’ulteriore separazione tra i due
gruppi; questo non solo per il conflitto nazionale che già li opponeva e per le
differenze sociali e culturali, ma anche per aver cercato, ognuno per conto
proprio, di organizzare anche il sistema educativo.
La natura multiculturale della società
israeliana trova un suo spazio nell’ambito del sistema educativo. Proprio per
questo le scuole sono suddivise in quattro gruppi: scuole statali, frequentate
dalla maggioranza degli studenti; scuole religiose statali, nelle quali viene
dato rilievo agli studi ebraici, alla tradizione e all’osservanza; scuole arabe
e druse, nelle quali l’insegnamento si svolge in arabo e viene data particolare
attenzione a storia, religione e cultura araba e drusa; scuole private, che
operano sotto la tutela di varie organizzazioni religiose ed internazionali.
Per quanto riguardava la minoranza
ebraica, il governo mandatario ne riconobbe l’autonomia anche nel campo
educativo, che era gestita da quattro principali organismi: il consiglio
nazionale (Va’ad Leumi), controllato dal governo mandatario, che decideva su
tutte le questioni principali; il consiglio ebraico dell’istruzione; il
comitato esecutivo, che si occupava dell’amministrazione delle scuole; il
dipartimento dell’istruzione, composto da un direttore e da uno staff di
ispettori e assistenti. Diversi fattori esercitarono la loro influenza
sull’intero sistema scolastico ebraico: le pressioni della vecchia comunità
ebraica da tempo residente in Palestina, l’impegno britannico a sostegno della
creazione di un national home ebraico, la volontà inglese di ridurre i costi
del controllo coloniale sulla regione e, infine, l’eredità stessa
dell’amministrazione turca. L’intero sistema scolastico israeliano,
centralizzato e sottoposto alla supervisione del ministero dell’educazione, è
suddiviso in sei distretti, ognuno dei quali guidato da un funzionario ebreo,
all’interno dei quali vi è un sovrintendente ebreo per le scuole ebree,
religiose e laiche, e un sovrintendente arabo per le scuole statali arabe. Il
ministero dell’educazione nomina i docenti, tra cui anche quelli che lavorano
nelle scuole arabe, e controlla direttamente i curricoli adottati da tutte le
scuole. Questi ultimi presentano delle differenze soprattutto in ambito storico
e culturale. Infatti, mentre i programmi delle scuole arabe prevedono lo studio
della storia, della tradizione e della cultura ebraica, quelli delle scuole
ebraiche non prevedono lo studio della storia, della cultura e delle tradizioni
arabe e, anche quando è previsto lo studio dell’arabo, l’approccio adottato è,
come afferma Majid Al-Haj, quello dello “studio del nemico”.
Il moderno Stato di Israele, nato nel
1948, ha ereditato questo sistema scolastico basato sulla separazione tra i
sistemi educativi arabo ed ebraico. Di conseguenza, le scuole in Israele sono
ancora oggi rigidamente separate per nazionalità e per il grado di aderenza
alle pratiche religiose. Ci sono scuole diverse per i bambini ebrei laici e
religiosi e scuole statali e religiose separate per gli arabi, sia cristiani
sia musulmani. Nelle prime, la lingua è l’ebraico e lo studio dell’arabo non è
obbligatorio; nelle seconde, la lingua usata è l’arabo ma lo studio
dell’ebraico è obbligatorio.
Invece in Palestina quasi tutti
i bambini fra i 6 e i 9 anni frequentano la scuola, ma a 15 anni circa il 25%
dei ragazzi e il 7% delle ragazze hanno già abbandonato gli studi. Lo studio, reso pubblico oggi, sottolinea i
numerosi fattori, spesso interconnessi fra loro, che contribuiscono alla
dispersione scolastica dei bambini e degli adolescenti palestinesi. Gli adolescenti maschi, fra i 14 e i 15 anni,
rappresentano circa la metà di tutti i bambini che, fino all’età scolastica
obbligatoria di 15 anni, non vanno a scuola. Il rapporto sottolinea che un
numero maggiore di ragazzi in questa fascia di età non stanno frequentando la
scuola in Cisgiordania (18,3%), rispetto alla Striscia di Gaza (14,7%).
Il motivo principale dell’abbandono scolastico
include un’istruzione di scarsa qualità, che spesso è vista come un fattore non
rilevante nelle loro vite, violenza fisica ed emotiva a scuola, sia da parte
degli insegnanti che dei coetanei, e il conflitto armato.
In Cisgiordania, i bambini sono spesso costretti ad
attraversare diversi checkpoint, blocchi stradali e di aggirare gli
insediamenti israeliani solo per raggiungere l’aula.
Questo più essere difficile soprattutto per gli
adolescenti maschi, visto che hanno maggiori probabilità di essere fermati e
interrogati lungo la strada per andare a scuola. Nella Striscia di Gaza, le
aule sono sovraffollate, con in media 37 alunni per classe. Fra coloro che sono
iscritti dal primo al decimo anno scolastico, circa il 90% frequentano scuole
organizzate su due turni. Ciò riduce le ore per l’apprendimento e la capacità
degli insegnanti di supportare adeguatamente i bambini, soprattutto quelli che
hanno difficoltà di apprendimento e comportamentali.
Essere a scuola non aiuta solo i bambini palestinesi
a imparare e svilupparsi, ma fornisce inoltre una stabilità e delle abilità
utili per la vita che sono di particolare importanza in questi ambienti molto
stressanti.
Il rapporto sottolinea inoltre che le violenze
colpiscono l’istruzione in diversi modi. Oltre due terzi dei bambini che
frequentano dal primo al decimo anno scolastico sono esposti a violenze emotive
e fisiche nelle loro scuole e, a causa dei conflitti, per oltre 29.000 bambini
nel 2017 il loro percorso scolastico è stato interrotto a causa di 170 attacchi
e minacce di attacchi su scuole, studenti o insegnanti, che colpiscono
ulteriormente la frequenza scolastica.
Per realizzare il diritto all’istruzione di ogni
bambino in Palestina, l’UNICEF chiede di migliorare la qualità dell’istruzione
nelle scuole che hanno basso rendimento, aumentare l’accesso a servizi per
l’istruzione su misura, migliorare la formazione e il supporto tecnico agli
insegnanti per un’istruzione che sia inclusiva, differenziare per target e
personalizzare i servizi di supporto sia a scuola sia fuori, come consulenza,
programmi di assistenza sociale e servizi sanitari, migliorare e ampliare i
programmi di prevenzione alla violenza, fra cui formazione sull’educazione
positiva per gli insegnanti, proteggere le scuole dalla violenza legata al
conflitto, fra cui incursioni da parte delle forze militari e di sicurezza.
La Palestina ha
condotto varie campagne per il diritto all’istruzione sottolineando
l’annessione pianificata come l’inizio di una nuova fase: un regime di
insediamento coloniale e apartheid più radicato che espellerà ulteriormente i
palestinesi dalla loro terra. Negare a intere generazioni il diritto di nascita
all’istruzione è una delle tattiche che Israele usa per cacciare i palestinesi.
La campagna per il diritto all’istruzione fa parte delle contromisure
organizzate guidate da comitati popolari per affermare il diritto dei
palestinesi di esistere sulla loro terra e per contrastare l’intensificazione
dell’oppressione. Il fatto che l’occupazione israeliana priva sistematicamente
i palestinesi nella Valle del Giordano del diritto all’istruzione crea
un’intera generazione che ignora la propria storia e identità culturale.
Distruggere l’identità culturale palestinese e tentare di cancellare la memoria
collettiva che li collega come popolo ad altri palestinesi è un altro modo con
cui il sionismo mira a eliminare il popolo palestinese nativo. Questa politica
è quello che viene definito “genocidio culturale”. La campagna per il diritto
all’istruzione intende creare fatti sul campo per salvare l’identità culturale
dei palestinesi dall’annientamento. Come si evince dal film Il figlio dell’altra
di Lorraine Levy del 2012, i bambini, sia palestinesi che israeliani, non sono
educati in uno spirito di amore. Le
autorità israeliane in questo settore non stanno preparando i bambini per una
vita di pace, di tolleranza e di uguaglianza. Infatti
i testi scolastici palestinesi non facevano cenno ad alcuna presenza ebraica
nell’antica terra d’Israele/Palestina, e non rappresentavano lo stato di
Israele sulle mappe moderne. Gli ebrei venivano denigrati come cospiratori e
assassini. Dall’inizio della seconda intifada, la rivolta, iniziatasi alla fine
del 1987, degli arabi palestinesi all'interno dello Stato d'Israele e nei
territori da questo occupati, il sistema di “chiusure interne” si è
progressivamente consolidato e istituzionalizzato, culminando nella divisione
della Cisgiordania in otto unità territoriali isolate, collegate con i maggiori
centri abitati palestinesi. Contemporaneamente, è stato introdotto un nuovo
sistema di permessi in base al quale, i palestinesi della Cisgiordania sono
tenuti a procurarsi dalla autorità israeliane delle autorizzazioni speciali per
potersi spostare da una città all’altra della Palestina, compresa la città
simbolo di Gerusalemme Est occupata. Queste restrizioni del movimento sono
imposte mediante un complesso sistema di posti di controllo e di barriere
fisiche. Nel film si evidenzia bene come
ci sia questa divisione e separazione tra i due popoli, vengono rappresentati i
vari momenti in cui i protagonisti devono entrare e uscire dallo stato
palestinese. Questa sorta di muro divide due mondi antitetici, da una parte la
ricchezza dall’altra la povertà.
Analizzando i due sistemi educativi ci si può
ricollegare al pensiero di Rousseau. Egli afferma che alla nascita si
possiedono tre maestri: la natura, gli uomini e le cose. La natura provvede
allo sviluppo biologico e cognitivo; gli uomini esemplificano l’uso che si può
fare degli strumenti sviluppati dalla natura, mentre le cose stimolano
l’apprendimento empirico. Nelle due
culture questi aspetti si evidenziano nell’importanza data dalla natura in cui
si vive, la quale rappresenta una serie di codici e regole che determinano lo
sviluppo del bambino. Si evince dall’analisi di Rousseau la presa di coscienza
dell’esistenza dell’infanzia. Una fase dove il bambino possiede una dimensione
propria, con peculiarità, caratteristiche ed esigenze, che fino al XVII secolo
è stata pressoché ignorata. È da queste peculiarità che deve muovere l’azione
educativa, la quale deve possedere tre caratteri fondamentali. Deve essere
naturale, cioè a contatto con la natura in modo tale da sottrarre il bambino
all’influenza negativa della società. Negativa, cioè il bambino deve avere la
libertà di scoprire autonomamente ciò che è giusto e ciò che non lo è,
attraverso il passaggio dalla sensazione alla riflessione. Infine indiretta,
cioè volta a stimolare l’interesse dell’allievo. Il bambino si trova, per la prima
volta, al centro del meccanismo educativo. Il puerocentrismo emerge
nell’educazione dei due ragazzi che vengono messi al centro delle loro famiglie
le quali condividono lo stesso amore per i figli e la stessa idea di educazione
negativa di Rousseau. Infatti i giovani hanno la libertà di sperimentare la
vita dell’altro, di capire cosa sia più giusto fare e di riflettere su chi si è
e chi si vuole essere. Nel corso della trama Yacine e Joseph si chiedono spesso chi siano e chi vorrebbe diventare, la domanda è
ostica e la risposta non è pervenuta da entrambi. Proprio per questo il film ha
un finale sospeso, una voce racconta le conseguenze come se i due ragazzi si fossero
scambiati la vita ma nulla è certo. Personalmente credo che questo racconto sia
un’utopia, si è cercato tante volte di pacificare i due stati ma senza
successo, tutt’ora è in atto uno scontro che sta portando tante vittime
innocenti e la distruzione di tutto.
Vale la pena tutto ciò? Ci sarà mai una tregua definitiva tra i due
stati? Io spero di sì, ma bisogna che si cambi mentalità da entrambe le parti e
che si provi a cercare un punto di incontro.
di Arianna Guareschi, 4BLSU