I can’t breathe! Con queste parole George Floyd, un afroamericano, ha lasciato il nostro mondo, steso a terra con il ginocchio di un poliziotto premuto sull’esofago.
L’ennesimo omicidio razzista coperto con la scusa del Coronavirus.
“George è morto perché era asintomatico e non lo sapeva”. Queste sono le parole usate dall’agente che lo ha fermato e poi assassinato ma, ad uccidere Floyd non è stata la pandemia che ha messo in ginocchio il mondo, è stato l’odio razzista che vige in America si potrebbe dire da sempre. Essere nero ecco cosa ha portato George alla morte, il colore della sua pelle ha permesso che i suoi assassini vagassero a piede libero e disonorassero la sua morte.
Le parole della moglie sono angoscianti ma, davanti a queste l’America non rimane indifferente davanti all’ennesima morte ingiusta segue e l’esempio di un grande leader che al suo tempo per i diritti degli afroamericani ha lottato tanto, Martin Luther King, resta una luce di speranza anche a distanza di anni dal suo ultimo discorso. Esattamente come lui aveva fatto negli anni ’60, migliaia di civili scendono in piazza a lottare perché la morte di Floyd non rimanga impunita e per gridare al suo posto, a manifestare contro un odio che strappa persone dai loro cari troppo presto. Durante la protesta non ci sono distinzioni: neri, bianchi, civili e personaggi famosi, tutti insieme prendono parte alla manifestazione per dimostrare che di razza ce n’è solo una quella umana!
Le parole di Floyd da un sussurro sono diventate un grido di battaglia scritto su cartelloni, mascherine e urlato in strada e nelle piazze.
La sua storia non sarà né la prima né l’ultima sulla morte di un afroamericano, ma sicuramente costituirà un tassello importante per riuscire a eliminare tutto questo odio.
Cattani Martina 3^ A L.S.U.
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