Ci sono dei venerdì
che sono solo il giorno prima del sabato, poi ce ne sono altri che invece
faranno parte indelebile dei ricordi della tua vita.
Come quello che ho
vissuto venerdì 25 ottobre.
L’incontro con una
persona che non avrei mai pensato di conoscere è avvenuto al centro
parrocchiale di Roveleto. Il secondo, quello di venerdì, di una serie di
incontri serali denominati “Utopia”.
Nella serata in
questione è stato ospitato Franco Bonisoli, ex-brigatista italiano che fece
parte delle Brigate Rosse e partecipò nel 1978 alla strage di via Fani, in cui
venne uccisa la scorta di Aldo Moro, per rapire così il presidente della Dc.
Indubbio il valore
storico di questo appuntamento: l’Italia ha così tanti volti che per una
ragazza della mia età – a volte – si fa fatica a capire perché le pagine di
storia finiscono sempre col tingersi di rosso. E la storia delle Brigate degli anni di piombo
è davvero molto rossa. La testimonianza di Bonisoli è stata illuminante, non
solo per sentire dalla sua voce i motivi politici che lo avevano spinto a dei gesti
così estremi ma anche – e forse soprattutto – per rispondermi ad una domanda:
il carcere può davvero essere un luogo di rieducazione?
A sentire il
racconto dell’ex brigatista la fiamma della positività si è accesa.
Bonisoli è un uomo
che ha sacrificato la sua vita per la causa e venerdì sera il fatto che questa
causa potesse essere positiva o negativa, perdeva di significato.
Bonisoli nasce a
Reggio Emilia da una famiglia operaia e frequenta la scuola fino all’età di 16-17
anni, quando sceglie di seguire i corsi serali, per ottenere il diploma
superiore e, contemporaneamente, lavorare. Da questo momento in poi partecipa
attivamente alla rivoluzione comunista, sposando le ideologie Marxiste e
Leniniste, e attua effettivamente due grandi rivoluzioni nel corso della sua
stessa vita: la prima, all’età di 19 anni, la decisione di far parte delle
Brigate Rosse, la seconda, la sua redenzione durante la detenzione, per le azioni
commesse proprio durante la sua militanza.
“All’età di 19
anni – racconta – ho deciso di abbandonare la famiglia, cambiare identità,
munirmi di documenti falsi ed entrare a far parte delle Brigate Rosse, in
particolare del comitato esecutivo, che ancora contava pochi membri”.
Una scelta
radicale portata dall’impeto rivoluzionario di chi voleva contribuire al
cambiamento, di chi desiderava in modo utopistico un mondo senza guerre e
sentiva il peso dell’ingiustizia. In particolare Bonisoli si riferisce
all’esempio della grande potenza americana che attacca il Vietnam, perdendo
inaspettatamente.
“Poi il percorso
di dissociazione – ricorda – dopo la condanna a quattro ergastoli”.
Che lo portò non
ha pentirsi, come tiene a precisare, dato che non tradì mai i suoi compagni, ma
a distaccarsi da ciò che aveva compiuto anni prima e a eliminare gradualmente
l’ostilità nei confronti di chi considerava “nemico”.
Ciò che mi ha
colpito e coinvolto maggiormente del suo racconto riguarda il modo in cui ha
esplicato il fermento rivoluzionario che lo ha portato giovanissimo a compiere
una scelta di vita drastica e totalizzante, oltre che alla rivalutazione in età
matura dei crimini commessi.
Tutti possiamo
sbagliare, certo, ci sono sbagli molto più gravi di altri ma – anche se sono
giovane – sto imparando a non emettere mai dei giudizi di valore affrettati.
Franco Bonisoli mi è sembrato un uomo sincero e non mi sento di aggiungere
altro. Come diceva Wittgestein, Anche per il pensiero c'è un tempo per arare
e un tempo per mietere, credo di essere ancora nella fase dell’aratura
riflessiva.
Chiara Rolleri
5ALSU