“Siamo sempre più connessi, più informati, più
stimolati ma esistenzialmente sempre più soli.”
(Tonino
Cantelmi)
Da questa frase dello psichiatra
Cantelmi emerge che gli adolescenti siano sempre più isolati per colpa dei
social network e della possibilità di giocare online senza la presenza fisica
dell’altro.
Partendo da questa affermazione ho fatto una ricerca in siti
specializzati sul tema delle nuove dipendenze, tra cui quella da Internet, di
cui sembrano soffrire molti ragazzi della mia età, senza però rendersene conto.
Molti adolescenti abusano infatti dell’utilizzo
dei social network trascorrendo dalle
sette alle tredici ore extrascolastiche collegati in rete, comprese anche le
ore notturne. Secondo un’indagine dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza, questo fenomeno è chiamato Vamping. Sei adolescenti su dieci
dichiarano di restare svegli fino all’alba per chattare e giocare online.
Tra i ragazzi è ormai diffusa la Nomofobia (no mobile fobia), ovvero la
paura di rimanere senza connessione. Chi tra di noi non ha mai chiesto,
arrivando in un posto nuovo “C’è il WiFi?” senza neppure guardare dove siamo e
cosa abbiamo intorno?
Passiamo ore e ore chattando,
postando foto e guardando video, con un impatto forte sulla nostra vita e sulla
nostra autostima; come dimostrano alcuni studi, la nostra autostima è
condizionata, ormai, dal numero di like e
di follower che abbiamo sui nostri social network.
È diventata una vera e propria
dipendenza quella del controllo compulsivo dei like (like addiction), dell’ossessivo paragone con gli amici e il
continuo monitoraggio delle pagine o dei profili di amici o “rivali” che non
fanno altro che aumentare sentimenti di invidia e rabbia che spesso sfociano in
hate speech, ovvero messaggi che
colpiscono in modo negativo ciò che viene pubblicato, influenzando l’umore e
l’autostima della persona offesa.
Tra i ragazzi è diffusa la moda di
farsi tra i tre e gli otto selfie al
giorno, anche in situazioni intime, che vengono pubblicati e quindi condivisi
con il mondo di internet.
Quando pubblichiamo una foto, questa
non è più di nostra proprietà, ma chiunque può salvarla, “screenshottarla” e condividerla. Non possiamo controllare ciò che
avviene dopo, e capita spesso che questo materiale venga utilizzato da persone
non sempre in buona fede: basti pensare a tutti i servizi dei media che parlano di pedopornografia che
utilizza immagini pubblicate troppo ingenuamente pensando che “resta tutto tra di noi” oppure le foto
pubblicate che vengono girate nelle chat di whatsapp
al solo scopo di prendere in giro e umiliare qualcuno.
Sono d’accordo con lo psichiatra
Gustavo Pietropolli Charmet quando sostiene, nel saggio L’insostenibile bisogno di ammirazione, che “la diffusione della moda dei selfie rappresenta una protesi alla
fragilità dell’autostima e racconta della paura di non essere visto, e quindi
di essere dimenticato”.
Anche i sociologi, oltre agli
psicologi e psichiatri, si sono occupati del tema delle relazioni nel mondo
virtuale.
Secondo il sociologo Giudo
Martinotti i gruppi all’interno dei social network sono delle “piccole società”
che permettono di creare o di rinsaldare legami di amicizia e di appartenenza.
Una visione meno positiva è quella di Zygmunt Bauman che vede il cyberspazio come luogo che elimina le
sfide e le difficoltà del costruire e mantenere un’amicizia, togliendole però
la bellezza della condivisione.
A mio avviso è proprio così, perché
l’amicizia è fatta anche di contatto, di sguardi, di scambi e di gesti.
Anche io uso molto i social (Facebook,
Instagram e YouTube) ma facendo queste ricerche per il blog, ho capito che vanno
utilizzati senza perdere il controllo e la consapevolezza di cosa potrebbe
succedere ai contenuti condivisi.
Penso sia importante, prima di
pubblicare qualcosa, spinti dalla noia, dalla rabbia, dalla voglia di attirare
attenzione, fermarsi e riflettere su dove tutto ciò potrebbe finire e le
ripercussioni sulla nostra vita.
Anna Fossati, 4ALSU
io mi dissocio
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