giovedì 24 gennaio 2019

Adolescenti iperconnessi ma disconnessi



“Siamo sempre più connessi, più informati, più stimolati ma esistenzialmente sempre più soli.” 
(Tonino Cantelmi)

Da questa frase dello psichiatra Cantelmi emerge che gli adolescenti siano sempre più isolati per colpa dei social network e della possibilità di giocare online senza la presenza fisica dell’altro.
Partendo da questa affermazione ho fatto una ricerca in siti specializzati sul tema delle nuove dipendenze, tra cui quella da Internet, di cui sembrano soffrire molti ragazzi della mia età, senza però rendersene conto.
 Molti adolescenti abusano infatti dell’utilizzo dei social network trascorrendo dalle sette alle tredici ore extrascolastiche collegati in rete, comprese anche le ore notturne. Secondo un’indagine dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza,  questo fenomeno è chiamato Vamping. Sei adolescenti su dieci dichiarano di restare svegli fino all’alba per chattare e giocare online.
Tra i ragazzi è ormai diffusa la Nomofobia (no mobile fobia), ovvero la paura di rimanere senza connessione. Chi tra di noi non ha mai chiesto, arrivando in un posto nuovo “C’è il WiFi?” senza neppure guardare dove siamo e cosa abbiamo intorno?
Passiamo ore e ore chattando, postando foto e guardando video, con un impatto forte sulla nostra vita e sulla nostra autostima; come dimostrano alcuni studi, la nostra autostima è condizionata, ormai, dal numero di like e di follower che abbiamo sui nostri social network.
È diventata una vera e propria dipendenza quella del controllo compulsivo dei like (like addiction), dell’ossessivo paragone con gli amici e il continuo monitoraggio delle pagine o dei profili di amici o “rivali” che non fanno altro che aumentare sentimenti di invidia e rabbia che spesso sfociano in hate speech, ovvero messaggi che colpiscono in modo negativo ciò che viene pubblicato, influenzando l’umore e l’autostima della persona offesa. 
Tra i ragazzi è diffusa la moda di farsi tra i tre e gli otto selfie al giorno, anche in situazioni intime, che vengono pubblicati e quindi condivisi con il mondo di internet.
Quando pubblichiamo una foto, questa non è più di nostra proprietà, ma chiunque può salvarla, “screenshottarla” e condividerla. Non possiamo controllare ciò che avviene dopo, e capita spesso che questo materiale venga utilizzato da persone non sempre in buona fede: basti pensare a tutti i servizi dei media che parlano di pedopornografia che utilizza immagini pubblicate troppo ingenuamente pensando che “resta tutto tra di noi” oppure le foto pubblicate che vengono girate nelle chat di whatsapp al solo scopo di prendere in giro e umiliare qualcuno.
Sono d’accordo con lo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet quando sostiene, nel saggio L’insostenibile bisogno di ammirazione, che “la diffusione della moda dei selfie rappresenta una protesi alla fragilità dell’autostima e racconta della paura di non essere visto, e quindi di essere dimenticato”.
Anche i sociologi, oltre agli psicologi e psichiatri, si sono occupati del tema delle relazioni nel mondo virtuale.
Secondo il sociologo Giudo Martinotti i gruppi all’interno dei social network sono delle “piccole società” che permettono di creare o di rinsaldare legami di amicizia e di appartenenza. Una visione meno positiva è quella di Zygmunt Bauman che vede il cyberspazio come luogo che elimina le sfide e le difficoltà del costruire e mantenere un’amicizia, togliendole però la bellezza della condivisione.
A mio avviso è proprio così, perché l’amicizia è fatta anche di contatto, di sguardi, di scambi e di gesti.
Anche io uso molto i social (Facebook, Instagram e YouTube) ma facendo queste ricerche per il blog, ho capito che vanno utilizzati senza perdere il controllo e la consapevolezza di cosa potrebbe succedere ai contenuti condivisi.
Penso sia importante, prima di pubblicare qualcosa, spinti dalla noia, dalla rabbia, dalla voglia di attirare attenzione, fermarsi e riflettere su dove tutto ciò potrebbe finire e le ripercussioni sulla nostra vita. 

Anna Fossati, 4ALSU

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