domenica 14 ottobre 2018

Noi ragazzi dello zoo di Internet


  

Il fatto che il mondo oggi venga percepito come “accelerato” non è una novità. Anzi, è un vero e proprio dato di fatto. È quella frenesia che si percepisce nell’aria delle metropoli a farci aumentare il ritmo della falcata, a farci pestare l’asfalto con maggior fretta. La verità è che il mondo è semplicemente poco paziente.   

Si può attendere per tante ragioni: un appuntamento, il lancio di un prodotto, il rilascio di una serie TV, un passaggio in macchina, il risultato di un test, una e-mail da parte di un’azienda o di un collega, un messaggio. Saper aspettare, oggi, mentre le macchine ci passano a pochi centimetri ad una velocità che percepiamo come eccessiva, senza avere “niente da fare”, è un’arte e, in quanto tale, non tutti sono in grado di padroneggiarla.
 
Gli adolescenti, nati negli anni più veloci della storia, sono esperti nell’arte dell’impazienza, del nervosismo e dell’intolleranza. Il giudizio viene cucito frettolosamente addosso a coloro che sono altro da noi. È l’etichettamento analizzato dal sociologo Goffman, solo che oggi non ci riferiamo solo alle cosiddette istituzioni totali, semmai al quaotidiano: una foto sui social, il modo di camminare, di vestirsi, la velocità con cui si risponde ai messaggi, il numero di sigarette che finiscono schiacciate sotto la suola gommosa della sneaker. La necessità di dover etichettare tutto come positivo o negativo, e di farlo il più velocemente possibile, è una prerogativa che sembra appartenere più specificatamente alla generazione dei millennials. J. Piaget (1896-1980) con la sua rivoluzionaria psicologia dello sviluppo, aveva messo nero su bianco come gli adolescenti ragionassero per ipotesi, sviluppassero un tipo di egocentrismo definito appunto, “adolescenziale” e, come i sistemi teorici così limpidi nelle loro menti, si sovrapponessero come carta lucida sulla realtà. Oggi sempre più virtuale.


I giovani vedono il mondo attraverso filtri che permettono loro di accelerare un giudizio, senza prima possedere notizie attendibili o fatti a supporto dei pregiudizi. Non ha importanza se questi sono positivi o negativi, è quel “pre”, quel prefisso al giudizio che ci deve far pensare. Perché se si ritiene che una persona o un’azione sia bella o brutta, giusta o sbagliata a prescindere dai fatti, è possibile che tutto il processo di analisi venga inficiato da una stucchevole predisposizione all’influenza sociale.

 “L’arte dell’attesa”, saggio di Andrea Köhler, mette in luce il concetto di “attesa” attraverso diversi punti di vista ma, quello che meglio si accosta al nervosismo delle ultime generazioni, è il seguente: “L’attesa è impotenza, e il fatto che da soli non riusciamo a cambiare le cose è un’umiliazione che stravolge il nostro modo di percepire il mondo”. Chi è tenuto ad aspettare non può fare altro che sentirsi vulnerabile, incapace, e questa sensazione si rafforza nel momento in cui siamo soli e dobbiamo aspettare “qualcosa”.
Chissà se Godot arriverà mai!
Il disagio dei ragazzi che non hanno nessuno con cui intrattenere una conversazione alla fermata del pullman, o prima del suono della campanella di scuola, viene in qualche modo mascherato attraverso l’uso del cellulare, ed è durante queste pause che l’impazienza si manifesta nella gamba che si agita sotto il tavolo, nei capelli scostati dal viso, nell’inconcludente ricerca dentro lo zaino di un oggetto che possa renderli apparentemente impegnati.
 
L’emblema di questa gioventù risiede nelle ormai celebri “spunte blu”: due insignificanti flag che stanno alla base dei messaggi di WhatsApp, così apparentemente innocenti, così concretamente infidi.
Forse il mondo era un posto un po’ più felice prima che qualche algoritmo rivelasse la nostra presenza in chat, la nostra posizione geografica, quali messaggi avevamo effettivamente ascoltato o letto e quali no –volontariamente o involontariamente-.
O Forse no: siamo le nostre scelte, anche quando queste ci sovrastano coercitivamente.
Ed è proprio in questo esempio che si riflette l’adolescente secondo Piaget: “perché ha visualizzato e non ha risposto? Mi sta ignorando di proposito? Sta parlando con qualcun altro? Quindi questo qualcun altro è più importante di me? Sicuramente mi sta tradendo”.
Un bla bla di dubbi, di inconsistenti ipotesi che però fanno male.

Egocentrismo, ragionamento per ipotesi, disegni mentali che, spesso, non ricalcano la realtà. Aspettare una risposta sui social è causa di un nervosismo perenne di cui non sempre gli individui si rendono conto. Quest’impazienza rende l’attesa un momento di forte tensione, di preoccupazione e ansia.
Molti adulti, ormai appartenenti alla generazione X – classe 1960-’80- probabilmente non risentono così prepotentemente di queste problematiche, essendo poco presenti sui social.

Saper aspettare non significa solamente occupare il tempo mentre si attende qualcosa di particolare, può capitare di dover “ammazzare il tempo”, e di non avere nessun’arma a disposizione con cui farlo. Qui entrano in gioco la settimana enigmistica, i giornali, i libri – nel caso non si abbiano a disposizione dispositivi elettronici – oppure serie TV, film, video e forum. Sempre più spesso si sentono frasi come “in Italia si legge sempre meno” oppure “sono sempre davanti al cellulare”, ovviamente riferite a coloro che Michele Serra aveva battezzato “gli Sdraiati” nel suo romanzo del 2013.
Non è raro sentire di ragazzi che si informano tramite i 280 caratteri di Twitter, o che conoscono la trama di un libro senza mai averlo aperto: sembra basti guardare un video per sapere tutto di un romanzo. C’è da attendere meno, non ci sono pagine da leggere, solo fotogrammi da guardare.
Ma anche le serie TV sono vittime di questa ingordigia del tutto e subito: la mietitura in questo caso si chiama spoiler. Ecco che si scatena una guerra lampo tra binge-watcher, ovvero coloro che guardano le novità seriali il più velocemente possibile.
Cosa si ricava? Nulla.
Cosa si perde? Nella migliore delle ipotesi il discorso, nella peggiore la possibilità di pensare, ragionare, vivere le ambientazioni e la trama. In poche parole, gustare la scoperta della conoscenza.
 
Avendo tutto a portata di mano in una piccola scatola nera chiamata cellulare, l’attesa, perde di significato.
Viviamo un mondo in cui si è sentita l’egenza di creare un’enciclopedia on line dedita solamente al “come fare determinate cose”: Wikihow,  la quale disintegra la possibilità di rimuginare per capire “come fare una determinata cosa”. La scusa per chi naviga su questo sito è sostanzialmente la mancanza di tempo, che potrebbe corrispondere ai minuti necessari per capire come avvitare un bullone.
 
Anche il diventare grandi è un’attesa frenetica. Come se non si avesse abbastanza tempo per raggiungere la meta. Poi la meta arriva, ma in quel caso l’attesa ha smesso di essere arte: è diventata vita. Bisognerebbe insegnare ai bambini che non si può “aspettare di crescere, vedersi crescere”, di non preoccuparsi di questo, perché accade e basta, come nei romanzi di formazione, nei cartoni animati, nei film.  Il dunque saper aspettare diventa inconsapevolezza.
 “Adesso smetto di leggere Geronimo Stilton” e si è grandi, quasi per magia, ma non funziona così perché l’attesa più bella è quella di qualcosa che non si conosce, ma di cui si sente la presenza quando arriva; l’attesa che ci fa dire “non mi ero accorto di aver aspettato tanto”.  

Anita Murelli 5^ALSU


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